Il dr. Pietro R. Cavalleri, psichiatra direttore clinico
CAVALLERI Il tempo trascorso insegna sempre qualcosa. Oggi portiamo sulle spalle la fatica del periodo passato, la fatica e forse anche la delusione per esserci trovati a rivivere norme e restrizioni quando avevamo avuto l’impressione, durante l’estate, di potercele lasciare alle spalle. Però, se ci guardiamo indietro, anche rispetto alla nostra piccola realtà che coinvolge tra ospiti e operatori circa 250 persone, dobbiamo constatare che siamo riusciti a salvaguardare la salute di tutti. Abbiamo avuto pochi casi (più operatori che ospiti) e questi non hanno avuto esiti gravi, da richiedere ricovero in ospedale. Affronto personalmente i mesi che ci aspettano con un maggiore senso di leggerezza, di fiducia, sulla base di ciò che è avvenuto per noi nei mesi trascorsi. Credo che questa esperienza sia stata e sia tuttora un forte richiamo alla realtà, che non è mai esattamente uguale a quella che vorremmo che fosse, ma ci presenta sempre delle situazioni che vanno al di là del nostro desiderio, richiedendo sempre un lavoro di adattamento e rielaborazione e anche di gestione delle nostre delusioni.
Ci avete dato per necessità divieti e restrizioni. Quali le sono pesati di più?
Le restrizioni che abbiamo dovuto applicare sono quelle a cui noi tutti siamo sottoposti, ma tra tutte, quella che per me è stata più sofferta riguarda la separazione netta tra gli ospiti residenziali e gli utenti del centro diurno. Le nostre attività riabilitative per la maggior parte sono strutturate per una fruizione trasversale a tutte le persone che frequentano o vivono in Fondazione: la pandemia ha imposto una divisione netta che è stata vissuta da operatori e pazienti come un vero e proprio strappo, senza contare che il Centro Diurno stesso è rimasto chiuso per oltre due mesi.
Chiamiamola con il suo nome, senza remore: paura. L’ha provata?
Se ripenso al periodo iniziale, marzo e aprile dell’anno scorso, la mia paura era di uscire di casa. Sincerante sarei rimasto volentieri tra le mura domestiche. Io credo che quando ci troviamo di fronte a una minaccia, che non è individuabile, di cui sappiamo poco e poco immaginiamo come proteggerci la prudenza sia la prima reazione e la paura sia il sentimento che ci spinge a stare all’erta. Col tempo abbiamo imparato che dei mezzi per proteggerci ci sono e devo dire che il basso numero di contagi è sicuramente esito di un comportamento responsabile che è stato non solo nostro, ma anche degli ospiti. Però tutti abbiamo avuto paura: la paura di non uscire più è pari a quella di dover uscire per forza, ad esempio per andare a lavorare.
L’anno che è trascorso per immagini della memoria. Quali sono i momenti salienti, quelli che hanno segnato l’inizio, le fotografie che rimangono nella mente?
Le strade deserte che attraversavo la mattina per venire in struttura e la sera per fare rientro a casa. Io abito distante e devo percorrere una settantina di chilometri: normalmente il problema del traffico si pone ogni giorno. Ebbene, mi è capitato di compiere l’intero viaggio senza incontrare nessuno. E questo rendeva una situazione di spaesamento enorme. E’ un’esperienza che non mi sarei mai potuto fare. Pensando alla vita in struttura ricordo le poche assemblee che abbiamo fatto nei momenti in cui era necessario mettervi a parte di qualcosa. Ho avuto l’impressione di una grande partecipazione da parte di tutto. Di solito gli incontri hanno uno svolgimento a tratti un po’ caotico. In quegli incontri, invece, l’attenzione era tutta orientata ad affrontare un problema comune. Ho sentito grande collaborazione e questo sentimento mi è stato di conforto.
A Natale abbiamo pregato insieme. Dr. Cavalleri, lei era con noi. Che le ha lasciato quel momento?
Devo dire che per me tutte le volte che mi sono trovato con voi a messa mi sono sentito sempre molto in pace, perché è un momento in cui ci si può guardare realmente come persone che sono alla pari, che possono essere amiche. Nella vita di tutti i giorni siamo costretti, giustamente, a rispettare dei ruoli. Voi avete il diritto di aspettarvi da me che mi occupi di organizzare le cose, di predisporre le cure in modo tale che ciascuno abbia ciò di cui ha bisogno. E’ un vostro diritto guardarmi come qualcuno che ha una responsabilità da onorare. Questo è giusto, ma questa prospettiva nasconde un’altra realtà, che diventa evidente quando ci troviamo a pregare. Siamo tutte persone che stanno vivendo un dono del quale siamo chiamati ad essere responsabili: la nostra vita.